Neve è una di quelle storie che ami profondamente in ogni sua frase, pagina bianca, capoverso oppure detesti come la peggiore tra le nuove trovate per far soldi. Un inno alla bellezza dell’essenziale eppure un amore così di ghiaccio da non riuscire a riscaldare abbastanza il cuore del lettore. La storia di Yuko è quella che viviamo tutti noi: chi a 15 anni, alcuni a 30, altri addirittura a 50. È la mia storia di ora, neolaureata in una di quelle facoltà che andavano di moda secoli fa: il momento in cui bisogna scegliersi per quello che si è con coraggio o per quello che si dovrebbe essere con coerenza. Yuko decide di provarci, di sentire la sua voce di poeta, di rompere quella scelta familiare tra «Guerriero o monaco».
“Padre,” disse il mattino del suo compleanno, in riva al fiume argentato, “voglio diventare poeta.” […] “La poesia non è un mestiere. È un passatempo. Le poesie sono acqua che scorre. Come questo fiume.” Yuko tuffò lo sguardo nell’acqua silenziosa e lesta. Poi si voltò verso il padre e disse: “è esattamente quello che voglio fare. Imparare a guardare il tempo che scorre.”
Crede nella scrittura, in quella che non ha bisogno di tante parole, quella che riesce a starci in sole diciassette sillabe: gli haiku. La sua poesia è però talmente delicata da divenire impalpabile, inafferrabile, inconsistente. Le sue parole rendono tangibili la leggerezza eppure non riescono ad andare oltre. Quello di cui necessitano è il colorarsi d’esperienza.
La poesia è innanzitutto pittura, coreografia, musica e calligrafia dell’animo. Una poesia è al tempo stesso quadro, danza, musica e scrittura della bellezza. Se vuoi diventare un maestro dovrai possedere il dono dell’artista assoluto. Le tue opere sono meravigliosamente belle, danzanti, musicali, ma bianche come la neve. Sono prive del colore, della pittura. Tu non sei un pittore, Yuko. È questo, a mancarti. Nient’altro che questo. Ecco perché, se non mi ascolti, la tua poesia rimarrà invisibile agli occhi del mondo.
Yuko così intraprende un viaggio che lo porta dritto al cuore di ciò che ama, lo priva di tutto e solo in quel momento, gli dà ciò capace di rendere insignificante anche quel poco che gli resta: l’amore.
Ma sapeva una cosa, una sola cosa, triste e bella: sarebbe invecchiato, certo, e un giorno sarebbe morto, ma l’amore che provava per quella donna non sarebbe mai morto; e non sarebbe mai morto neppure quel viso addormentato sotto il ghiaccio.
Sarà un insegnante accecato dal dolore a insegnargli che tutto ciò di cui ha bisogno è già in lui, che se si lascia guardare dalla luce allora scoprirà in sé i colori di cui ha bisogno il suo scrivere.
Dal nero più profondo, Soseki ha dipinto il candore, ha scoperto la purezza. Poi ha scoperto che la vera luce e i veri colori sono sempre intrinsecamente legati alla bellezza dell’anima.
Il libro di Maxence Fermine è un invito a colorare quegli ampi spazi bianchi del libro, della nostra vita, delle nostre relazioni. A non avere paura a spingerci oltre, a guardarci dentro e a lasciare che siano anche gli altri a farlo, a dire quello che abbiamo di più caro e farlo con voce alta e chiara. A trasformarli in danza, pittura, musica, calligrafia. Una storia per i pomeriggi delle domeniche d’inverno, in cui il buio fuori ci appare comunque più luminoso di quello che abbiamo dentro. Una storia sulla bellezza che si cela dietro l’apparenza delle piccole cose. Forse una lezione troppo importante per un libro tanto fragile, ma senza dubbio un ottimo promemoria per il nuovo anno.
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