“Mai più”: la storia della fine

“Mai più.” Il sentimentalismo che queste due parole portano con sé e la sensazione che limitino le cose che verranno, me le rende antipatiche. Tuttavia mi si erano affacciate alla mente con un’autorità e una cupezza la cui forza non sarebbe stato facile dimenticare.

Kitchen racconta il “mai più.” Quello che non esagera nulla, quello che definisce una fine inaspettata seppur inevitabile. Quello per cui è necessario farsene una ragione anche quando fa male, anche quando ci sembra che ormai non ci appartiene altro che il dolore. Il “mai più” del freddo delle notti che penetra dentro nelle ossa, nello stomaco, nel cuore e ci trasforma. Quel “mai più” che divide la vita in un prima e un dopo e non ha importanza quanto ti affanni, quanto ci provi, quanto ci credi: tu non sarai più quello che sei stato.

Era da non crederci. Il mondo in cui ero vissuta sino a poco tempo prima per qualche ragione mi aveva lasciato alle spalle con uno scatto irresistibile. Ero rimasta indietro stordita; non avevo saputo fare altro che reagire debolmente. Perché a fare quello scatto in aventi non ero stata io. Anzi. Per me tutto era stato terribilmente doloroso. Un tempo, nella luce che colpiva la mia stanza dove ora non era rimasto più niente, c’era l’odore familiare di casa. La finestra della cucina. Le facce sorridenti degli amici, il verde smagliante dei giardini dell’università e in primo piano il profilo di Sotaro, la voce della nonna dall’altro capo del telefono le sere in cui chiamavo tardi, il futon nelle mattine fredde, il rumore di pantofole della nonna nel corridoio, il colore delle tende, i tatami, l’orologio a muro. Tutte queste cose. Tutte cose che lì hanno smesso di esistere.

In 146 pagine la Yoshimoto ci ritrae sei volti della perdita:

  • La morte di tutto quello che ci rimane della nostra famiglia, di tutto quello che riempiva la nostra casa e la sciocca decisione che ne segue di non legarci più a nulla, per non essere costretti a sopportare questo dolore nuovamente (Mikage);

Quando persi i miei ero ancora bambina. Quando morì il nonno ero innamorata. Quando morì la nonna rimasi completamente sola. Ma in nessun caso mi ero sentita sola come quel momento.Con tutta me stessa avrei voluto fermarmi: smettere di camminare, smettere di vivere. Il pensiero che ci sarebbe stato un domani, e poi un dopodomani, e poi una settimana, non mi era mai sembrato tanto insopportabile. Continuare a vivere nei giorni a venire con quella sensazione di sconforto totale, mi ripugnava. Mi era ingrata anche la mia figura che percorreva le strade come quelle di qualsiasi altro passante notturno senza rivelare lo scompiglio che avevo dentro.

  • La perdita di una moglie, di tutto quello che credevamo sarebbe stato il nostro oggi e il nostro domani e l’amara scoperta che anche chi amiamo, anche chi ama, prima o poi morirà. Certo, è l’ordine delle cose, però intanto è vivo e forse è solo l’oggi che conta nell’affetto, non quello che decidiamo di rimandare a domani (Eriko);

Fu buttando l’ananas in un angolo del giardino che capii chiaramente, anche se in modo inesplicabile, una cosa. Una cosa che a dirla sembra banale. Capii che io non ero il centro del mondo. La quota di sofferenze nella vita non variava certo in rapporto a me. Non ero io che potevo decidere. Allora, pensai, tanto valeva godersi, per quanto era possibile, il resto.

  • La scomparsa di una madre, di un padre, di coloro che ci hanno insegnato l’arte della gentilezza. Quel colpo interiore che credi non passerà mai, quello che “non può essere accaduto a me, non di nuovo.” La frattura che credi possa risolversi solo con la fuga, solo facendo finta di nulla in una camera d’albergo anonima (Yuichi);

“Quel ragazzo non ha avuto un’educazione proprio come si deve, e così ha un bel po’ di difetti.” “Difetti?” dissi ridendo. “Sì,” disse lei con un sorriso molto da mamma. “Emotivamente è molto confuso, nei rapporti con le persone è troppo distaccato, ha un sacco di cose che non vanno ma… una cosa ho cercato a tutti i costi di insegnargli: a essere un uomo gentile. E lui lo è, è gentile nell’animo.” “Hmm. Sì, capisco.”“E anche tu lo sei.”

  • La morte di colui che avevamo scelto come compagno. La storia di quando ci lasciamo consumare da una fine, di quando non possiamo fare altro che sperare che il tempo ci restituisca ciò che abbiamo perso, di quando non possiamo convivere con l’idea che tutto sia stato vano: gli sforzi per trovare un equilibrio, una formula capace di contenerci ed esprimerci, le discussioni fino a tardi, le nottate in bianco a giustificare gli sbagli (Satsuki);

C’erano state anche grossi liti, e piccoli tradimenti. Avevamo sofferto nel cercare l’equilibrio tra desiderio e amore. Essendo tutti e due giovani ci eravamo feriti a vicenda molte volte. Quella felicità non era esistita spontaneamente da sempre. C’era voluto del tempo. Ma erano stati belli, quei quattro anni. E poi c’era stato quel giorno, così perfetto da avere paura che finisse. Di quella limpida giornata d’inverno in cui tutto era stato così bello, così dolce, mi restava soprattutto l’immagine di Hitoshi che si allontanava, il suo giubbotto nero che si confondeva con l’oscurità.

  • Il profilo di chi perde tutto in una volta sola, di chi si sente nudo nella sua perdita e riesce ad essere solo nei panni di chi ha perso (Hiiragi);

Non credo che lui la ricordi come io ricordo Hitoshi. I ragazzi non fanno apposta a farsi del male come noi. Ma con tutto il suo corpo, i suoi occhi, diceva una cosa soltanto. Non che lo dicesse a parole. Assolutamente no. Però, se l’avesse fatto le sue sarebbero state parole disperate. Terribilmente disperate. Sarebbero state:“Voglio che torni.” Ma più che parole, sarebbe stata una preghiera. Era straziante.

  • Il sorrido di chi ha perso anche lui qualcosa, eppure, mentre corriamo incontro al dolore, ci ferma e ci ricorda che forse non è ancora finita (Urara).

Banana Yoshimoto dice una sola cosa in questo libro, la più difficile di tutte: la vita continua, sempre. Bisogna avere il coraggio di dire addio, vivere la tristezza fino in fondo e poi accettare l’invito di quel qualcuno che ha fatto tanta strada per portarci in piena notte un pasto caldo. Quel qualcuno che non ha molto tempo prima di dover ripartire, ma ha sentito la nostra chiamata silenziosa e ora, guardandoci dall’altro lato della stanza, ci chiede di ritornare a casa.

“Vuoi saperlo?” dissi scherzosamente, facendo una smorfia. “Ti dirò tutto, questa notte è reale.” Poi cominciai a parlare senza più fermarmi. “Sono venuta di corsa in taxi da Izu. Yuichi, io non voglio perderti. Noi due, anche se ci sentivamo soli, abbiamo sempre vissuto senza pensarci troppo, nel modo più indolore possibile. Non potevamo fare altro: la morte, che alla nostra età non avremmo dovuto conoscere così bene, era troppo pesante per noi. Può darsi che in futuro stando con me conoscerai dolori, guai, problemi ma, se vuoi, costruiamo insieme una vita complicata, ma più felice di qualsiasi vita solitaria. Quando starai meglio, senza fretta, pensaci. Non scomparire così.”

Kitchen racconta quel “mai più” dopo il quale sembra esserci solo il vuoto, ma non è così: quel “mai più” non dico smetterà di fare male, ma un bel giorno assumerà il ricordo di un incrocio in cui siamo stati costretti a lasciare qualcosa, a scegliere altro e a costruire qualcosa di nuovo e non per forza migliore, semplicemente diverso.

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