Ho passato la mia vita da solo in una stanza. Vorrei trovare una nuova luce.
È proprio in una nuova luce che ci appare il pittore olandese nella pellicola di Julian Schnabel. Un’anima inquieta che si racconta in pennellate inquiete, che ci viene restituita in inquadrature inquiete. La storia sempre rimasta in sottofondo, quella sempre sorvolata nei manuali d’arte, approda finalmente al cinema e lo fa attraverso gli occhi di chi il colore lo conosce come Van Gogh stesso: un pittore racconta un pittore.
L’unico modo di descrivere un’opera d’arte è fare un’opera d’arte.
Un film che trascura gli aspetti accademici per concentrarsi sull’energia della pennellata, sul grumo di colore che non si riesce a stendere, ma rimane lì come un mistero. La natura, come massima espressione divina, ci appare in tutta la sua forza con gli occhi di un compositore di colori. L’unico e immenso desiderio di divenirne parte: “Dipingo principalmente per non pensare […] Quando dipingo smetto di pensare e sento che io sono parte di ogni cosa che è fuori e dentro di me.”
Forse Dio mi fa dipingere per quelli che nasceranno.
Il grido solitario, intrappolato nel giallo cromo dei suoi dipinti più celebri, viene liberato e ci scuote, ci spinge a interrogarci sul vuoto che può generare la sensazione di inadeguatezza, il timore di non essere amati, l’amara constatazione di non essere capiti e il conseguente aggrapparsi agli unici che ci vedono.
Volevo tanto condividere quello che vedo, ora penso solo al mio rapporto con l’eternità.
L’asincronia tra come appariamo fuori e quello che siamo dentro raggiunge l’estremo: un essere apparentemente così rozzo, schivo, chiuso nasconde in realtà il dono di aprirsi come nessuno alla bellezza e alla luce e di riuscire a segnarne una traccia, una briciola che, se solo ne avessimo il coraggio, ci condurrebbe “sulla soglia dell’eternità”.
Dentro di me c’è qualcosa, non so cosa sia: vedo qualcosa che gli altri non vedono.
L’urgenza della sua visione:“I pittori che a me piacciono dipingevano velocemente con un gesto netto ad ogni pennellata.” L’assoluta certezza di essere predestinato a qualcosa, sebbene nulla gli dia la conferma di ciò (in vita riuscì a vendere un solo quadro).
Mi piace dipingere, devo farlo. Sono sempre stato un pittore, lo so perché non so fare nient’altro e, mi creda, c’ho provato.
L’inconsistente confine fra malattia e creatività, fra follia e arte: “Molti dicono che sono pazzo, però la follia è una benedizione per l’arte.” Quello che ci ritrae Schnabel è Vincent, non Van Gogh; è l’uomo fragile e il suo incessante dialogo interiore.
Lei confonde se stesso con i quadri.
Io sono i miei quadri.
Una malattia che non oscura lo sguardo, ma spezza l’anima per farvi entrare la luce.
Vedo quello che gli altri non possono vedere. Questa cosa mi spaventa. Temo di impazzire, ma ho capito che è un dono… Posso mostrare ai miei fratelli ciò che non possono vedere, posso donare loro speranza e conforto.
Immagino che tutto profumi di buono. Oh sì, amava il giallo, il bravo Vincent, pittore venuto dall’Olanda. Questi baluginai del sole rallegravano la sua anima. Detestava la nebbia. Aveva bisogno di calore. Quando eravamo tutti e due ad Arles, tutti e due pazzi e perennemente in guerra sulla bellezza del colore, perché io amavo il rosso. Come trovare il vermiglio perfetto? Lui ha disegnato sul muro col suo pennello più giallo e subito quel muro è diventato violetto.
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