“Tu mi appartieni e tutta Parigi mi appartiene” di Ernest Hemingway

“Lavoravo sempre finché non avevo concluso qualcosa e smettevo sempre quando sapevo quel che sarebbe successo dopo. Così ero sicuro che il giorno dopo sarei andato avanti. Ma qualche volta quando stavo cominciando un nuovo racconto e non riuscivo a farlo partire, mi sedevo di fronte al fuoco e strizzavo le bucce delle piccole arance sul bordo della fiamma e guardavo lo scoppiettio di scintille blu che producevano. Restavo a guardare fuori sui tetti di Parigi e a pensare: <<Non preoccuparti. Hai sempre scritto prima e scriverai adesso. Non devi far altro che scrivere una sola frase vera. Scrivi la frase più vera che conosci.>> Così alla fine scrivevo una frase vera, e poi da lì andavo avanti. E allora era facile perché c’era sempre una frase vera che conoscevi o che avevi visto o che avevi sentito dire da qualcuno. Se cominciavo a scrivere in modo complicato, o come qualcuno che introduceva o presentava qualcosa, scoprivo che potevo benissimo tagliare tutti i fronzoli  e gli arzigogoli e buttarli via per cominciare con la prima frase vera e semplice ed esauriente che avevo scritto. Lassù in quella stanza decisi che avrei scritto una storia su ogni cosa che conoscevo. Cercavo di farlo per tutto il tempo in cui scrivevo ed era una buona e severa disciplina.”

Hemingway mi ha regalato il segreto del ricominciare, ricominciare da quello che si ha anche se è poco o se di seconda mano, è qualcosa e tanto basta per scrivere. Che non è solo quello di cui parli a contare ma anche il modo in cui lo fai ed Ernest ha sempre pensato che non dovessero esserci bugie nello scrivere, nessun fronzolo o abbellimento. Ernest dice le cose come stanno, in modo secco e senza appello ed è forse per questo che le sue pagine ci consegnano un ritratto mai visto di una Parigi che per quanto possiamo immaginarcela, per quanto Woody Allen l’abbia resa spettacolare a mezzanotte, comunque non tornerà. Quella di queste pagine è una festa mobile, una festa la cui data cambia in base al calcolo della ricorrenza pasquale; forse qui diventa qualcosa di più, qualcosa di così familiare da diventare mobile per te, una Parigi che festeggi quando ne hai la necessità, come un posto a cui tornare. Parigi non ha fine e Hemingway ci racconta come abbia un volto per ogni persona che la vive e di come forse il profilo che ha tracciato sia poco veritiero per altri. “Festa mobile” comincia da una telefonata nel novembre del 1956 in cui la direzione dell’Hotel Ritz di Parigi convinse Ernest a riprendersi due piccoli bauli da marinaio che aveva depositato lì nel marzo del 1928, contenenti vecchi rimasugli dei suoi primi anni a Parigi. Negli anni viene rimaneggiata, modificata, svestita senza riuscire mai ad essere definita, perché una vera conclusione non ce l’ha. Hemingway ci ha provato ma si è reso conto che quella che doveva essere una fine sarebbe apparsa come l’inizio della sua seconda Parigi, la Parigi di Pauline, mentre in queste pagine l’unica eroina è Hadley. Hemingway ci porta a spasso per i caffè, ci fa stringere la mano di un Fitzgerald in preda a un amore folle e disperato che lo ha consumato, ci fa provare una stretta al cuore perfino davanti a Miss Stein nonostante la sentiamo solo ammonirci di come i nostri scritti siano inaccrochable e quindi per lei improponibili, ci porta a vedere quadri, a viaggiare in terza classe per Lione, ci insegna a sciare in Austria e a bere del buon vino ovunque ci si trovi. Una Parigi che si basta, che si illumina in ogni angolo, che profuma di pane fresco e che cambiando ti cambia. Tra scrittori con il fetore delle bugie, pittori amati dai ricchi, camerieri dai baffi storici e poeti a cui non importa nulla della pubblicazione ma semplicemente che qualcosa esisti, Hemingway ci mostra la vita di chi a volte si immerge talmente tanto in quello che scrive da perdersi, di chi alza appena lo sguardo dal proprio quadernino solo per bagnarsi le labbra in un cafè creme, di chi passeggiando lungo il fiume lo ascolta, di chi contempla la bellezza meglio a stomaco vuoto quando tutte le percezioni sono portate all’estremo e nulla, nemmeno il tepore di uno stomaco pieno, è migliore di quello. Una Parigi con le sue corse di cavalli, di bicicletta, incontri di boxe con promettenti giovani dal Canada, una Parigi che lo ama come lui ama una donna e alla fine ne ama due, anche se così si spezza a metà e se potesse tornerebbe mille volte indietro.

Hemingway mi ha insegnato che cercavo un soggetto sbagliato. Che un soggetto ce l’avevo già come la Plath che se ne accorge troppo tardi, che forse un po’ questa mancanza la usavo come scusa per tirarmi indietro. Che cercavo ma lo facevo male, perché se vuoi trovare qualcosa salta sempre fuori. Mi ha insegnato che alcuni credono che quando scrivi hai qualcosa solo se lo tiri fuori o a volte se sei costretto a buttarlo via, che nonostante quello che i nuovi critici diranno sui tuoi racconti, sui tuoi frammenti o sui tuoi romanzi, se ti importa davvero non cambia le cose; mi ha insegnato che la qualità di quello che scrivi è in quello che elimini, in quello che non dici, che rimane dentro e che alcuni leggendo sapranno e ad altri rimarrà sempre un mistero; mi ha insegnato a fermarmi solo quando avevo qualcos’altro da dire e a non pensare a quello che scrivo quando smetto di farlo. Hemingway mi ha insegnato a cercare la meraviglia nella città, che sia Parigi, Bologna, Roma o Londra, a saperla guardare, riconoscere, distinguere e a saperne parlare per quella che è, perché non ha bisogno di essere costretta in qualcosa che non è.

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