“Sei sola?”. Sì, mamma. Ho quarantadue anni e sono una donna sola. Non so se sia colpa delle persone sbagliate al momento giusto o delle persone giuste al momento sbagliato, non so se sia soprattutto colpa mia o magari del caso, del destino; non lo so . Quello che so è che ci si abitua a tutto, davvero a tutto, ma non alla solitudine. O meglio: io non mi ci posso abituare. La solitudine mi ha reso una persona libera, mi ha insegnato l’indipendenza, mi ha insegnato a godere delle piccole cose: il profumo di una candela accesa, la radio che all’improvviso passa proprio la canzone che volevo ascoltare, leggere tutta la domenica senza dover dare spiegazioni a nessuno. La solitudine mi ha insegnato il coraggio e la forza di volontà, ma soprattutto mi ha insegnato a guardarmi dentro, ad accettare i miei difetti e ad ammettere di avere dei pregi; la solitudine mi ha insegnato ad amare, a voler bene. Qualcuno mi dirà: “Ad amare si impara in due”, ma non è mica detto. Io quale sia il valore da dare alle persone l’ho capito così, con un posto vuoto accanto.
Sempre d’amore si tratta è la storia di diciotto solitudini: tutte diverse eppure tutte così simile da riuscire ad intrecciarsi, a raccontarsi a vicenda, a tradire ognuna un tratto che l’altra nasconde. La solitudine di una maestra, ormai in pensione, che ha così paura di perdere le parole, di rimanerne improvvisamente sprovvista. Di Marina che ripensa a quella volta che la sua compagna di scuola le aveva detto che forse non era pronta per fare la maestra, alla solitudine di quel momento, di quando davanti al suo piccolo sogno non si era sentita abbastanza e stava quasi per mollare tutto. A questo ripensa, prima di far cadere per sbaglio sul piede di un giovane ragazzo una ventina di scatole di tonno: di quanto alcune parole possano avere il potere di cambiare tutto oppure no, di quanto dipenda da noi sceglierle oppure lasciarle andare. La solitudine di Lorenzo sorella a quella di Giacomino: la solitudine di coloro lasciati al margine di tutto, al margine delle storie eccezionali perché troppo grassi o troppo magri, perché sudano troppo, perché balbettano, perché zoppicano, di coloro che, per paura di soffrire ancora, di soffrire sempre, scelgono di tenersi ancora più fuori dalla scena, in silenzio. La solitudine di coloro che in realtà aspettano solo che qualcuno si avvicini e porga loro la mano, li inviti a ballare o a prendere un gelato. La solitudine di Rosa, quella dei primi amori che rimarranno lì nella memoria, sospesi in eterno, cancellati e schiacciati dalla quotidianità degli anni per poi tornare un giorno che porti tua nipote e la sua amica in spiaggia. La solitudine delle storie che diventano un motivo in più per abbracciarsi. La solitudine di Ilaria, di una donna che per tanti anni ha aspettato un figlio. Le solitudini che basta uno sguardo per cancellarle, che come esistevano un attimo prima, smettono di farlo. La solitudine di Michele e quella di Alex, di chi ci prova ad amare per due, a crederci per due, a spiegare l’amore a chi non l’ha mai provato. La solitudine di chi resta, di chi vede gli altri partire con nel cuore la certezza che quella sarà l’ultima volta, di chi si ritrova a chiedere dopo un anno e mezzo la sorte di un “e noi?” che forse non c’è mai stato. La solitudine di chi alla fine di una storia ci lascia la parte migliore di se che però non è bastata a sistemare le cose.
La solitudine di Enrica, di chi immersa nella solitudine ci lavora, di chi prova a capirla, di chi prova ad alleviarla come può e quella di Leo, di chi ha un sogno e per quello rinuncia a tutto. La solitudine di Francesca, di una donna di quarantadue anni che la sera, quando pesa ancora di più, dopo aver fatto la doccia, si inventa una nuova identità perché non si basta più e forse questo colmerà la sua vita. La solitudine di chi si ritrova a scrivere per chat a una perfetta sconosciuta quel vuoto che sente, di chi nonostante tutto però ci crede ancora e non smette di desiderare forte, fortissimo e mai troppo. La solitudine di Paolo, di un cuore infranto che deve tornare a fare i conti con la parte fredda accanto alla sua del letto, con la spesa di nuovo per uno, con la sedia vuota accanto la sua al ristorante da due lire in cui la portava sempre. Quella di Bianca, di chi cresce sentendosi sbagliato agli occhi della persona che dovrebbe amarci di più. Quella di chi ci prova a crescere odiando chi non ci da l’amore che ci spetta, e forse per qualche tempo ci riesce anche ma alla fine si rende conto che l’importante è sempre stato saper amare. La solitudine di Edoardo, di chi alla fine non ce la fatta a reggere il peso di tutto, di chi ha lasciato andare e solo troppo tardi capisce di aver sbagliato. La solitudine di chi però alla fine corregge i propri errori e riesce forse anche un po’ a perdonarsi. Quella di Camilla, di una figlia nata quando non doveva, nata alla fine di una storia invece che all’inizio. Quella di chi è troppo piccolo per capire eppure ce la mette tutta, tutto il coraggio di cui poi il tempo ci priva. La solitudine di Caterina, di chi dentro di sé ha un mostro che lentamente divora tutto ciò che siamo stati, tutto ciò che siamo e tutto ciò che saremmo potuti essere. La solitudine di chi smette di ascoltare musica, di ballare, di sorridere, di andare al mare in macchina. Quella di chi a un certo punto smette di vivere e non riesce nemmeno più a vedere, di chi si sente responsabile della propria debolezza e se ne vergogna. La solitudine di chi si perde e non riesce più a trovarsi, di chi sceglie il buio. La solitudine di Livia, la nostra Livia, il centro di tutto. Quella di chi si porta addosso responsabilità troppo grandi, di chi rinuncia a tutto per amore, di chi ci prova a partire ma che alla fine torna sempre indietro. La solitudine di chi si consuma nella speranza che dare tutto quello che ha alla fine risolverà le cose. Quella di chi alla fine non ci riesce, ma può scegliere di salvarsi, di essere felice, di smetterla di accusarsi di una colpa che non è mai stata sua, di perdonarsi, di stendersi su un prato il sabato pomeriggio e lasciare che il sole asciughi quelle ferite che non passeranno mai del tutto ma che possono smettere di fare male.
Sedici solitudini che finiscono in quella di Susanna, di chi un giorno prende un treno regionale e per un momento crede di non avere alcuno spazio, alcun valore, alcun peso, alcun ruolo. La solitudine di chi si perde, di chi crede di non avere nulla da dare, di chi non si sente abbastanza per la maggior parte del tempo. Quella di chi vorrebbe essere di più: cantare meglio, saltare più in alto, essere più bella, essere più sensuale, sorridere di più, lavorare di più, cucinare di più. La solitudine di chi, arriva un giorno di aprile, e ha una storia da raccontare. Una storia da stringere quando la sera ci si addormenta troppo tardi perché da soli a fatica si riesce a prender sonno, da tenere vicino al cuore quando la domenica mattina non si ha nessuno a cui portare la colazione a letto o quando il giovedì sera non si ha nessuno a cui telefonare per lamentarsi di quanto ancora ci sembra irraggiungibile il fine settimana. Una storia per guarirci, non dico del tutto ma almeno un pochino dalla nostra di solitudine perché sì “la felicità può essere una scelta”.
1 Risposta a “Una storia “per uno””
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Non so come mai io abbia aspettato così tanto a comprare il secondo libro, ma sono felicissima di averlo fatto. L’ho letto in un viaggio in treno (andata e ritorno) ed è stato un vero e proprio viaggio nelle emozioni. Il suo modo di scrivere ti scava nell’anima e dopo, pagina dopo pagina, ti guida dolcemente a ricostruirla.
L’ho trovato davvero bello e profondo. Aspetto con ansia il terzo!